Sapere per fare

ARTE E VITA DI CHIESA

Arte e vita di Chiesa: difficolta’ e benedizioni

“La nostra capacità viene da Dio”
Paolo, 2 Corinzi 3:5

Come in tutte le cose, nel fare arte vi sono diversi livelli di capacità della singola persona, che vogliamo definire “l’artista”, e questi vari livelli variano a seconda del talento personale e dell’impegno nell’allenarsi e migliorare ciò che si fa. Nel mio caso, per esempio, vi è stato un coinvolgimento nel lavorare con la comunicazione, nel settore delle traduzioni e dell’insegnamento della lingua inglese. Per venticinque anni ho lavorato presso una grossa scuola di inglese nella città di Roma, insegnando la lingua a tutti i livelli e tipi di studenti, mentre in parallelo traducevo testi di ogni genere per la De Agostini, il Comune di Roma, riviste mediche e di arte, studi legali ed editori evangelici. Adesso so, senza alcun dubbio, quando una traduzione è fatta bene o quando un corso per l’apprendimento della lingua è fatto male: ho l’esperienza per saperlo. Però devo riconoscere che, quando io stesso muovevo i primi passi nella traduzione e nell’insegnamento, pur facendo molti errori avevo un talento, non imparato, quello che Paolo descrive come “capacità venuta da Dio”.
Tutti noi abbiamo talenti, detti anche capacità o abilità personali. C’è chi “è portato” per le lingue, come nel mio caso, oppure sa disegnare, dipingere, colorare con facilità istintiva; chi è bravo con la musica, con qualsiasi strumento, con la danza, il mimo, il teatro o il raccontare barzellette. C’è chi crea opere d’arte di legno, marmo, carta o creta, ferro o plastica, cemento o vernice; chi cucina in modo divino, chi scrive o predica in maniera accattivante, chi fotografa, illumina, ambienta e mille altre cose che sono forme d’arte. Il fare arte è una nostra necessità di comunicazione. Dio è un creativo, e ciò è ovvio nell’abbondanza del creato e nella sua immensa varietà; non solo vi sono infinite specie di esseri viventi sulla terra, ma sono anche individualmente tutte creazioni singole. Ognuno di noi ha dieci dita delle mani, e dieci impronte digitali diverse, che però sono anche diverse da quelle di chiunque altro sul
pianeta. Ogni fiocco di neve che cade è diverso dall’altro, ogni DNA è personale, perfino ogni nostro capello ha un numero di serie! Dio è creativo, ed ha messo le Sue stesse caratteristiche dentro l’uomo, fatto a Sua immagine e somiglianza. Quindi anche noi abbiamo capacità creative, e questa creatività fa parte di una nostra espressione comunicativa, cioè il fare arte è un modo di comunicare, di relazionarsi col prossimo; io produco questa cosa con tutto il mio estro e tutta la mia capacità, ma nel produrla studio la tua reazione: che ne pensi? Ti piace? Ti sto comunicando qualcosa, anche un’impressione negativa? Qualsiasi risposta ad un atto creativo è comunicazione, dalla frase: “Che bello!” al “Non mi piace…” al semplice mangiare con voracità un piatto particolare e poi chiedere il bis. Fare arte, è stato detto, fa pensare chi guarda, e questa è anche la reazione che Dio si aspetta da noi quando osserviamo il Suo creato, “poiché le perfezioni invisibili di Lui, la Sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente sin dalla creazione del mondo, essendo intese per mezzo delle opere Sue” (Romani 1:20). Allora, il fare arte necessita di uno spettatore? Ha senso fare arte se non vi è chi
guarda? Eppure in un certo senso la spinta creativa è tale che prima coinvolge l’artista stesso, poi, gradualmente, lo porta a misurarsi con il pubblico. Ma è proprio in questo misurarsi che l’artista è vulnerabile, espone il fianco, anzi espone le sue intime sensazioni, ed è in questo esporsi al giudizio che si è facilmente lesi, feriti, offesi, tagliati dalle critiche e incompresi. La reazione dell’artista potrà allora essere una di chiusura: tu non mi apprezzi? Allora io faccio a meno di te, oppure addirittura faccio a meno di fare arte; e questa mancata comunicazione porta all’isolamento interiore, al silenzio dell’arte, alla graduale frustrazione interiore e
sterilità della creatività di ogni persona. Dio non vuole la nostra frustrazione. Lui, creativo per eccellenza, incoraggia da sempre la nostra creatività mettendo talenti in ognuno, e ne apprezza l’espressione nella Sua Parola: “la casa si edifica con la sapienza e si rende stabile con la prudenza; mediante la scienza se ne riempiono le stanze d’ogni specie di beni preziosi e gradevoli” (Proverbi 24:3-4). La comunità cristiana però non sempre si è comportata allo stesso modo. Noi viviamo in Italia, paese cattolico dove le chiese ed i conventi sono stati per secoli “culle d’arte”, dove pittori, scultori, miniaturisti e scrittori hanno avuto incoraggiamento e finanziamento per usare le loro forme d’arte per abbellire e creare. Siccome vi è stato un accostamento tra l’arte sacra ed alcune posizioni teologiche, il rifiuto protestante di quelle posizioni ha comportato il rifiuto implicito anche dell’arte sacra, quindi ci ha portati ad avere sale di culto senza arte (molto spesso proprio brutte!), case senza arte, perché sa di peccato, vite senza arte perché non è roba spirituale, e così via.
Tutto questo lascia un retrogusto di frustrazione, che però non va dichiarata perché non sarebbe da Dio essere credenti frustrati, e ci possiamo sfogare solo nelle forme d’arte che “sono permesse”, quali la cucina (le agapi sono sempre un gran successo!), o la musica, però limitatamente, perché poi se diventiamo troppo bravi c’è la carne che si manifesta, e poi facciamo sfigurare i fratelli che non hanno mai studiato. Questo sarebbe come giustificare, all’assurdo, un predicatore a tempo pieno che potrebbe portare un bel messaggio sostanzioso dalla Bibbia, ma si limita a dire quattro pensierini per non far sfigurare i suoi fratelli che lavorano, e quando predicano non hanno tempo per preparare niente di gran ché. La realtà è che la nostra capacità viene da Dio, ma Egli ha dato a noi il talento in mano e ci ha detto “di trafficarlo”. Ogni ragazzo, uomo o donna ha un livello di capacità in alcune cose che è sempre migliorabile, e si migliora nel proprio talento solo trafficandolo, investendolo, facendoci insomma qualcosa. Stando fermi, non si andrà mai avanti.
Ora, posso dire per esperienza che vi sono quattro livelli di capacità nella gente. Il primo livello è quando una persona sa di essere principiante. Non sa niente, o quasi, e sa di non sapere niente; accetterà con umiltà e disponibilità di essere formata, di ricevere insegnamento e guida per esprimere un suo talento qualsiasi che sente di avere ma non sa come usare. La persona è docile e plasmabile, un ottimo studente.
Il secondo livello è quando la persona sa qualcosa; non molto, ma qualcosa. Questo è un livello molto noioso e pericoloso, perché spesso la persona pensa di sapere già tanto, quindi non accetta insegnamenti o miglioramenti indotti da altri, si crede superiore. Però evita il confronto diretto con chi è più preparato, perché sa di non essere allo stesso livello, e spesso nelle comunità cerca di abbassare “i più preparati” al livello proprio perché si ritiene più spirituale, o pensa di non necessitare migliorie. La persona è boriosa e si isola. Il terzo livello è quando la persona sa molto. Ha studiato tanto e vissuto molte esperienze sulla propria pelle, ed ha molto sviluppato le proprie capacità. Ora, in genere queste persone pensano di non sapere molto, anche se ne sanno più degli altri; il loro percorso li ha abituati a vedere che anche altri sono bravi, più preparati di loro, con maggiore talento. In genere queste persone non smettono di studiare, sono in un processo di miglioramento continuo; sono disponibili ad insegnare ciò che sanno ma anche aperte a imparare da altri. Il quarto livello è di chi sa molto, e sa di sapere molto. Ora, si potrebbe ricadere nell’orgoglio che ritiene tutti gli altri inferiori, ma in genere il percorso fatto, passando dallo stadio principianti al borioso saccente, poi ridimensionati dal confronto con altri che ci stimola a migliorare e ci porta poi a “saperla lunga”, crea artisti eccezionali. L’esperienza ci fa rivalutare il prossimo, fa apprezzare altri modi di fare la stessa arte, rende di noi ottimi insegnanti. Ricapitolando, c’è chi:

  • Sa poco o niente, e sa di sapere poco o niente;
  • Sa poco, ma crede di sapere molto;
  • Sa molto, ma pensa di sapere poco;
  • Sa molto, e sa di sapere molto.
    Purtroppo il secondo livello è molto comune. Chi saprà elevarsi dal “sapere poco, credendo di sapere molto” e si impegnerà nel faticoso traffico del proprio talento, scoprirà che la creatività è infinita, proprio come Dio, e si migliora sempre. Si arriverà poi ad uno stato di accettazione di sé come bravo, ma individuo; diverso dagli altri, non necessariamente sempre in concorrenza con gli altri, quindi capace di insegnare ciò che si sa, senza pontificare. Prima o poi si passerà anche al quarto stadio, cioè il capire che la nostra capacità viene da Dio, non è “roba nostra”, ma anche il fatto che è Dio che ci ha dato la benedizione di poter fare, di poter creare qualcosa di bello per la Sua gloria ed anche per la nostra realizzazione e soddisfazione personale.

    “Ho messo sapienza nella mente di tutti gli uomini abili, perché possano fare tutto quello che ti ho ordinato…”
    L’Eterno, Esodo 31:6

  • Dio diede dei progetti a Mosè sul Monte Sinai, assieme alle leggi; progetti dettagliati sul come costruire il Tabernacolo e tutti i suoi arredi sacri, i paramenti del sacerdozio, gli ornamenti di pietre preziose, perfino l’olio da usare per l’unzione ed il profumo composto secondo l’arte del profumiere (Esodo 30:35). L’ordine era di riprodurre esattamente le istruzioni (“…faranno tutto conformemente a quello che ho ordinato…” Es. 31:11), e non era neanche la prima volta che simili istruzioni dettagliate venissero date direttamente da Dio a persone che si potrebbero definire meno che esperte: chissà se Noè avesse mai costruito una nave prima dell’arca, sulla quale Dio diede un progetto da rispettare. Sicuramente Mosè non era stato costruttore di tabernacoli, al massimo avrà studiato l’architettura delle piramidi e l’architrave egizia in gioventù, poi però nel deserto, appresso alle pecore, avrà avuto ampio modo di studiare l’erezione di tende facilmente smontabili e trasportabili. Vediamo quindi che Dio dà istruzioni dopo aver preparato le persone, e quando serve, manda anche operai specializzati per compiere ciò che vuole. Il passo al quale si fa riferimento nomina Betsaleel, figlio di Hur, della tribù di Giuda, “riempito dello spirito di Dio, di abilità, di intelligenza e di sapere per ogni sorta di lavori”, ed Oholiab della tribù di Dan suo assistente. E’ interessante che, pochi versi dopo, scopriamo che anche in famiglia Mosè aveva già gente capace, perché troviamo suo fratello Aaronne che si mostra imprenditore, dà ordini, raccoglie oro in quantità, lo sa fondere e, “cesellato il modello, ne fece un vitello di getto” (Esodo 32:4). Eppure Dio non sceglie Aaronne, perché ne conosce il cuore, debole e manovrabile, ma si serve di due emeriti sconosciuti che sono stati però preparati da tempo, in quanto ripieni
    del Suo spirito. La stessa cosa succederà con Salomone, alla costruzione del Tempio; prima lo troviamo alla ricerca di personale esperto nel taglio del legname, sotto la
    guida del re Hiram di Sidone (“poiché tu sai che non vi è alcuno fra noi che sappia tagliare il legname come quelli di Sidone…I Re 5:6), e vi è un vero e proprio accordo commerciale di collaborazione internazionale. Poi vediamo che Salomone manda a chiamare un altro Hiram da Tiro, figlio di una vedova della tribù di Neftali che si era risposata a Tiro: “Hiram lavorava in rame; era pieno di sapienza, d’intelletto e di industria per eseguire qualunque lavoro in rame” I Re 7:14, vedi anche 7:36-37). Ora, essendo figlio di un pagano, quest’uomo non sarebbe stato impiegato da molti nella costruzione di un tempio per l’Eterno, ma Salomone lo usò, e il risultato fu il tempio che era una vera meraviglia per ebrei e pagani assieme, e che soprattutto Dio stesso onorò
    con la Sua gloriosa presenza. In questo possiamo vedere il parallelo di usare gente preparata nell’opera di Dio, anche se non appartiene alle nostre comunità; Hiram comunque, tramite sua madre, aveva certamente ricevuto insegnamenti e timor di Dio che lo avranno spinto ad accettare l’invito, ed è l’unico operaio specializzato del tempio ad essere menzionato per nome!
    Quali linee guida possiamo allora trarre da questi pensieri sull’arte e la vita di
    chiesa? Vediamo se possiamo estrarre qualche suggerimento:
    1) Dio dona dei talenti a tutti. Secondo la parabola dei talenti, più volte ripetuta nei Vangeli (Matteo 25:15, Luca 19:11), la maggior parte delle persone ne ricevono più di uno, ma tutti ne hanno ricevuto almeno uno. L’importante è di non avere paura di trafficarlo, la paura (anche di fare una brutta figura) è la maggiore resistenza contro lo sbocciare dei talenti nelle comunità, però Dio ci ha dato anche dei “talent-scout” saggi come Salomone, delle rivelazioni come quella ricevuta da Mosè e, soprattutto, Dio non ci ha dato uno spirito di paura, perché la paura implica apprensione di castigo (I Giovanni 4:18). Allora, se io voglio sviluppare il mio talento, il Signore troverà il modo per farmelo scoprire e poi mi aiuterà a manifestarlo. Come guide, non castighiamo le idee innovative, vagliamole prima ed incoraggiamole a svilupparsi; se i nostri genitori avessero criticato ogni nostra prima parola, forse oggi saremmo tutti muti.
    2) Un talento manifestato crescerà e si svilupperà al meglio in un’atmosfera di amore (“nell’amore non c’è paura; l’amore perfetto caccia via la paura…” I Giov. 4:18), quindi sarà necessario che, in un gruppo qualsiasi, le guide del gruppo si facciano carico di aiutare a far crescere i talenti nascenti. E’ facilissimo stroncare un talento esordiente, basta dire poche parole di scoraggiamento piuttosto che incoraggiarlo. Nelle comunità cristiane, poi, vi è il rischio di creare dei “troni” dai quali si scende solo per il funerale, limitando quindi le possibilità di altri di inserirsi nel servizio, sia esso musica, canto,
    predicazione, presidenza o qualsiasi altra forma creativa. In questo senso, è bene che chi ama far sviluppare i talenti si affianchi a chi è nuovo, lo guidi e lo aiuti, come nella corale del Re Davide (I Cronache 25:8), inserendolo gradualmente in una struttura simile alla famiglia che cresce e dà pari opportunità espressive a tutti.
    3) Non si deve mai smettere di imparare. Il giorno che pensiamo di “sapere tutto” è il giorno in cui la nostra creatività comincia a declinare: ci si chiude gradualmente alle cose nuove, si diventa critici di ciò che è diverso dal mio, si ha paura del confronto quindi si tendono ad evitare gli altri e ci si ghettizza, di solito in un club di santissimi che la sanno più lunga degli altri. La Bibbia è completa, e tutta la rivelazione di Dio ci è
    stata data; ma chi suona deve sempre “suonare maestrevolmente con giubilo” (), quindi dovrà sempre migliorare; chi studia imparerà sempre di più, chi dipinge sarà sempre più esperto e capace, chi danza imparerà sempre nuovi passi. Nelle comunità è ottima l’organizzazione di gruppi, classi, scuole di formazione in varie discipline; poi fuori dalle
    comunità tutto ciò è ancora meglio, perché è un eccellente sistema evangelistico.
    4) Si deve tenere sempre un buon rapporto con le autorità costituite. Vediamo in I Cronache 25 che i 288 musicisti e cantori del coro del Tempio erano suddivisi in 24 “band” che si alternavano, tutti sotto la conduzione di Asaf, Heman e Jeduthun, a loro volta sotto la copertura del Re Davide (25:6-7). Capiterà sempre che vi siano delle tensioni tra chi canta, chi suona, chi dirige una funzione. Capiteranno problemi tra chi fa musica, chi fa mimo, chi necessita di microfoni e chi no, chi ha bisogno di luci e chi di amplificazioni, chi richiede grandi ambienti e chi può svolgere il suo servizio in spazi angusti. Tutto ciò ha un costo, non solo in termini di denaro ma ancora più di fatica, impegno e desiderio di apprezzamento, quindi tutto deve essere sempre in un chiaro e buon rapporto con la direzione della comunità. L’artista non può essere indipendente dalla chiesa, se vuole testimoniare del Capo della chiesa. Chi si separa dagli altri, dice il proverbio (18:1), cerca la propria soddisfazione e si arrabbia contro tutto ciò che è profittevole. Quindi bisogna riuscire a lavorare insieme. Un pastore forse non avrà capacità musicali, ma potrà dare spazio ad un bel gruppo musicale; forse non saprà recitare, ma potrà lasciare che altri lo facciano, e tirino su recite, drama, mimo, lezioni di
    dizione, gruppi teatrali tra bambini e adulti. Una sala di culto potrà anche essere usata come sede di una mostra d’arte, di fotografia, di disegno, di concerti; potrebbe perfino diventare sede di una associazione culturale o umanitaria, pur dividendo i momenti di culto da quelli prettamente sociali dove si invitano “gli altri” ad entrare senza timor di proselitismo. L’importante è che sia chiaro il contatto, il rapporto tra il conduttore e gli
    artisti, che lo scopo di tutto sia di innalzare il Signore e creare occasioni di incontro aperte a tutti, insomma, manifestare Cristo nel mondo in quanto artisti cristiani, presenti tra la gente come sale della terra, non paurosi di mostrarsi o di misurarsi nel dialogo con le arti, dove la nostra presenza è non solo necessaria, ma indispensabile.
    5) A questo proposito, dobbiamo imparare ad informare, i fratelli, le agenzie di stampa, Comunicazioni Cristiane, i vari giornalini evangelici, il vasto pubblico… ed a questo riguardo, ci possono aiutare ed insegnare molto alcuni fratelli che frequentano ma non hanno “doni di predicazione”, però invece se la cavano molto bene col computer, con la grafica o con la stampa di foglietti informativi. Se impariamo a delegare (cosa difficile, lo
    so!), riusciremo a moltiplicare le persone nel servizio, e garantiremo la riproduzione del lavoro e la sua continuità nel tempo. Un buon modo di fare discepolato, in un mondo di “single”, di gente scollegata da un tutore, un insegnante, un genitore, che quindi alla fine fa sempre tutto da sola concludendo poco perché autodidatta. Un discepolato che porterà frutto, soddisfazione personale e crescita della chiesa di Gesù Cristo.
  • Andrew Thomas
    Roma, 01.06.2004